Amministrazione giudiziaria per Armani operations a tutela attività impresa
loading...
Un altro duro colpo per il made in Italy: lo scorso gennaio la Procura di Milano aveva portato al commissariamento della Alviero Martini spa, ora tocca alla Giorgio Armani Operations spa, che è stata messa in amministrazione giudiziaria per un presunto sfruttamento del lavoro attraverso appalti che farebbero ricorso a manodopera cinese in nero e clandestina, per realizzare capi di lusso in laboratori dormitorio nel Milanese.
Nel dettaglio, secondo l'attività investigativa, nella Giorgio Armani Operation spa, società industriale del gruppo Armani, a cui sono affidati i processi produttivi delle collezioni di moda e degli accessori del gruppo, “vi è una cultura di impresa gravemente deficitaria sotto il profilo del controllo, anche minimo, della filiera produttiva della quale la società si avvale; cultura radicata all'interno della struttura della persona giuridica, che ha di fatto favorito la perpetuazione degli illeciti". Questo quanto sostiene la procura di Milano come riportato nel decreto della Sezione autonoma misure di prevenzione che dispone l'amministrazione giudiziaria per un anno della Operation spa. Un consulente del Tribunale affiancherà per un anno i vertici della società industriale del gruppo (non indagata) per “bonificarne” i rapporti con i fornitori.
“La società ha da sempre messo in atto misure di controllo e di prevenzione atte a minimizzare abusi nella catena di fornitura”, ha sottolineato, attraverso una nota, la Giorgio Armani Operations commentando la misura di prevenzione decisa dai tribunali di Milano. “La Giorgio Armani Operations collaborerà con la massima trasparenza con gli organi competenti per chiarire la propria posizione rispetto alla vicenda", prosegue la nota.
Come riporta l'Ansa alla macchina incollatrice era stato rimosso "l'inserto di plexiglass" necessario per "impedire che il lavoratore accidentalmente" rimanesse impigliato con le mani o con gli indumenti. La fustellatrice a bandiera era priva del "dispositivo di arresto di emergenza" mentre a quella tingi bordo era stato tolto "il bicchiere di sicurezza" e a quella da cucire il "carter" in genere installato per proteggere le dita.
Sono queste, scrive l'Ansa, alcune delle "protezioni di sicurezza" eliminate "al fine di aumentare la velocità di produzione del macchinario a discapito dell'incolumità dell'operatore" emersa dagli accertamenti dei carabinieri del Nucleo ispettorato del lavoro, coordinati dai pm Paolo Storari e Luisa Baima Bollone, sugli opifici abusivi con manodopera in nero e sfruttata e titolari cinesi e che hanno portato all'amministrazione giudiziaria della Giorgio Armani Operations spa.
La decisione di affiancare un commissario agli organi amministrativi della società è "a favore e a tutela dell'attività imprenditoriale" della maison tra le più note a livello internazionale.
Nel corso delle indagini “si è disvelata una prassi illecita così radicata e collaudata, da poter essere considerata inserita in una più ampia politica d'impresa diretta all'aumento del business. Le condotte investigate non paiono frutto di iniziative estemporanee e isolate di singoli, ma di una illecita politica di impresa. Secondo il pm, si dà vita, così, "a un processo di decoupling organizzativo (disaccoppiamento), in forza del quale, in parallelo alla struttura formale dell'organizzazione volta a rispettare le regole istituzionali, si sviluppa un'altra struttura, 'informale', volta a seguire le regole dell'efficienza e del risultato".
In questo modo, "la costante e sistematica violazione delle regole genera la normalizzazione della devianza, in un contesto dove le irregolarità e le pratiche illecite vengono accettate e in qualche modo promosse, in quanto considerate normali. Unico strumento per far cessare questa situazione, in un'ottica di interventi proporzionali, è una moderna messa alla prova aziendale finalizzata ad affrancare l'impresa da relazioni (interne ed esterne) patologiche”.
L'Ansa riporta anche che, sempre dal provvedimento del Tribunale, attraverso testimonianze degli stessi lavoratori e accertamenti dei carabinieri, emerge che la produzione negli opifici abusivi cinesi di abbigliamento e accessori, venduti poi con marchio Giorgio Armani, era “attiva per oltre 14 ore al giorno, anche festivi”, con lavoratori “sottoposti a ritmi di lavoro massacranti» e con una situazione caratterizzata da “pericolo per la sicurezza” della manodopera, che lavorava e dormiva in “condizioni alloggiative degradanti”. E con paghe “anche di 2-3 euro orarie, tali da essere giudicate sotto minimo etico”.