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Il tallone d'achille della moda è la concorrenza della Cina

Scritto da Isabella Naef

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Prada ss 22, courtesy of Prada

La pandemia ha colpito anche la moda, in Italia ma soprattutto all’estero, andando a incidere principalmente sul fabbisogno di circolante delle aziende del settore, oltre che sulle occasioni di vendita. Produrre e vendere è diventato più difficile ma soprattutto più lento.

“Il 2020 ha lasciato il segno sul nostro settore più forte: il 90 per cento delle imprese sono state colpite negativamente, con conseguenze in alcuni casi gravi”, si legge nel rapporto Euler Hermes sullo scenario economico del settore moda.

Rapporto Euler Hermes: in futuro sarà strategico poter contare su una manodopera qualificata

I mancati incassi hanno aumentato il fabbisogno di capitale circolante, quantificato su scala nazionale tra i 400 e i 500 milioni di euro; i giorni medi di incasso dei crediti commerciali sono passati da 76 a 82 giorni, sottolinea, ancora, Euler Hermes, società del Gruppo Allianz attiva nel segmento dell’assicurazione crediti che ha realizzato, in collaborazione con l’Istituto di ricerca Format research, questa indagine sulle imprese manifatturiere del settore moda.

Le chiusure degli esercizi commerciali, i lockdown prolungati, il rallentamento delle filiere di fornitura globali, ma anche la ridotta propensione all’acquisto degli italiani, sono stati i fattori alla base di questa tendenza che ha tolto ossigeno alla catena di fornitura italiana, dall’ingrosso al dettaglio. Numeri alla mano, il 51 per cento delle imprese sono state colpite dalla pandemia, per l’8 per cento ha avuto effetti “devastanti”, mentre, per il 31 per cento le conseguenze sono state minime. “A guardare il difficile percorso di risalita che le imprese stanno compiendo, il 77 per cento di esse sembra essere oggi ancora lontano dai livelli pre-pandemia in termini di performance e livello dei ricavi, e solo il 24 per cento dichiara di avere recuperato i livelli di fatturato e performance pre-Covid”, hanno spiegato gli esperti.

Secondo i bilanci del 2020, raccolti dalla banca dati di Euler Hermes, il ciclo di conversione delle vendite ha richiesto 13 giorni in più rispetto al 2019, passando da una media di 97 a una media di 110 giorni. Un aumento dei tempi legato principalmente all’incremento dei giorni medi di incasso dei crediti commerciali (dso), passati da 76 a 82 giorni, e all’aumento dei giorni di rotazione del magazzino (dio), che invece sono passati da 87 a 96 giorni. I mancati incassi hanno di conseguenza aumentato il fabbisogno di capitale circolante, quantificato su scala nazionale tra i 400 e i 500 milioni di euro, che tuttavia sono stati in parte coperti dalle misure messe in campo tanto dal Governo quanto dalle istituzioni finanziarie, essenziali per preservare il tessuto produttivo e imprenditoriale italiano.

Dopo il contraccolpo del 2020, il 2021 è stato l’anno della ripartenza anche per la moda. Nei primi sette mesi il settore ha seguito il trend generale, crescendo in termini di fatturato del 22,2 per cento contro il +27,2 per cento messo a segno dal settore manifatturiero rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente.

L’export del settore, che rappresenta il 10,4 per cento del totale nazionale, è cresciuto nello stesso periodo del 22,1 per cento grazie all’exploit della pelletteria (+25,5 per cento), con differenze poco marcate tra mercati Ue ed extra Ue. In forte calo, invece, l’import di prodotti tessili (-33,1 per cento) soprattutto da Regno Unito, Usa, Svizzera e Cina (-76,1 per cento), evidenzia il rapporto Euler Hermes.

“Con il ritorno delle sfilate in presenza e delle vendite di un tempo, la moda ha ripreso il suo ruolo centrale all’interno dell’economia italiana. Insieme alle vendite è ripartita anche la produzione. A livello nazionale si ampliano i progetti dei poli produttivi incentrati sul fashion luxury e la diversificazione delle maison in altri settori, come la ristorazione. In crescita anche il riciclo e i progetti di sostenibilità dell’impatto ambientale. specie nel fast fashion, nell’ottica della compensazione delle emissioni di Co2, anche se la moda circolare ha ancora ampissimi margini di miglioramento”, osservano gli esperti.

A livello globale i punti di forza dell’industria della moda rimangono la forte domanda di dispositivi di protezione personale e le tendenze strutturali favorevoli di alcuni segmenti (abbigliamento sportivo, lusso, design) che sono innovativi e in perenne trasformazione. I punti di debolezza sono rappresentati dall’agguerrita concorrenza di Paesi emergenti come la Cina, dalla vulnerabilità delle catene di approvvigionamento globali agli shock esterni (pandemie, tensioni commerciali) e dalla pressione molto forte da parte dei grandi clienti. L’ecommerce, oltre a continuare nel suo tumultuoso sviluppo, aumenta la concorrenza dal lato dei prezzi così come il successo del mercato dell’usato e del vintage che sono in rapida crescita nelle economie mature.

La chiave per il futuro, in tutti i settori produttivi, sarà legata alla capacità di sfruttare al meglio lo scivolo della ripresa e naturalmente i sostegni arrivati e che arriveranno dallo Stato e dall’Unione Europea. Per questa ragione sarà strategico poter contare su una manodopera qualificata in grado di assicurare qualità ed efficienza alle imprese stesse. Per le imprese del settore moda tutto questo non è scontato. Negli ultimi cinque anni infatti il 76 per cento delle società attive nel settore ha avuto la necessità di dotarsi di forza lavoro qualificata, mentre Il 47 per cento ha avuto difficoltà nella ricerca del personale di cui aveva bisogno. Queste difficoltà sono risultate più accentuate presso le imprese di dimensioni minori (10-49 addetti), presso le imprese dell’abbigliamento e presso quelle operative nelle regioni del Nord-Est e del Sud. Le figure qualificate per cui le imprese hanno trovato maggiori difficoltà nel reperimento sono state quelle dei sarti, dei conduttori di macchine utensili e dei confezionatori, spiega il raporto.

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