Jean-François Limantour: "l’Ue tratta meglio i paesi asiatici che quelli del Maghreb"
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Di formazione economista, Jean-François Limantour è stato per vent’anni delegato generale dell’Unione francese delle industrie della moda e dell’abbigliamento, poi dell’Associazione europea delle industrie dell’abbigliamento. Questo mediatore fuori dal comune a livello internazionale, che partecipa ai cambi geopolitici che modificano il settore, ci confida la sua opinione sulla situazione e le prospettive del settore tessile-abbigliamento.
Quali sono oggi le vostre attività?
Dirigo Texaas Consulting, una società di consulenza in strategia di sviluppo internazionale per le industrie del settore tessile, della moda e del lusso e sono presidente di due associazioni: il Circolo euromediterraneo dei dirigenti tessile- abbigliamento ed Evalliance. Queste due organizzazioni hanno lo scopo di contribuire alla cooperazione tra l’Unione europea e, rispettivamente, i paesi mediterranei (Cedith) e l’Asia (Evalliance), in particolare la penisola indocinese (Vietnam, Cambogia, Myanmar), ma anche l’India, la Cina, il Bangladesh. Queste due associazioni riuniscono industriali, distributori, formatori, designer, aziende del settore tecnologico, organizzatori di saloni.
Sono inoltre consulente strategico di Messe Frankfurt France, l’organizzatore dei saloni Texworld, Apparelsourcing, Avantex e Consulente strategico dell’Associazione marocchina delle industrie del tessile e dell’abbigliamento (Amith).
Come va il settore del tessile e dell’abbigliamento nella zona Mediterranea?
Nel 2017, le importazioni dell’Unione europea provenienti dai paesi mediterranei sono incrementate a 20,9 miliardi di euro di cui 14,7 miliardi per l’abbigliamento e 6,1 miliardi per il tessile. La loro parte nelle importazioni europee di abbigliamento è in declino da 10 anni. Nel 2017, era del 25%. Nel 2017, è scesa al 17,7 percento. Analizziamo più da vicino il caso della Turchia, del Marocco e della Tunisia.
La Turchia
è il terzo fornitore dell’Unione europea in abbigliamento dietro alla Cina e al Bangladesh, la Turchia dal canto suo ha visto le importazioni europee cadere dal 15,3 percento nel 2007 al 11,5% nel 2017. L’andamento della Turchia, sensibile dal 2015, è dovuto a una perdita di competitività dovuta a un importante aumento dei costi oltre, di recente, alla sua situazione politica interna e alle sue relazioni tese con l’Unione europea, in particolare con la Germania, suo primo cliente europeo. Ma a causa della sua unione doganale con l’Ue e del notevole deprezzamento della lira turca, la Turchia resta un paese molto interessante come fonte di abbigliamento per gli europei. Si tratta del secondo fornitore dell’Ue per jeans, t-shirt, vestiti, gonne, giacche per gli uomini; il terzo per pantaloni, maglioni camicie e camicette. Resta meno attrattiva per l’intimo, i costumi da bagno e l’abbigliamento professionale.
Il Marocco
è l’ottavo fornitore di abbigliamento dell’Unione europea. Aveva subito violentemente la concorrenza asiatica in seguito allo smantellamento delle quote dell’Accordo Multifibre. Dal 2013, il settore ha ritrovato la strada di una forte crescita e conquista di nuovo le parti di mercato, contrariamente agli altri fornitori mediterranei.
Il Marocco raccoglie così i frutti di una politica industriale e commerciale dinamica, sostenute dalle Autorità del paese e votate a rendere questa industria campione mondiale del fast- fashion.
La Tunisia
è il nono fornitore dell’Ue. In convalescenza dopo aver duramente subito un doppio colpo: quello dello smantellamento dell’Amf a partire dal 2005 poi quello dei problemi di qualsiasi ordine, economico, sociale e politico, conseguenti alla "rivoluzione del gelsomino". La sua parte nelle importazioni di abbigliamento dell’Union europea era del 4,4 percento dieci anni fa. Ora è solo del 2,4 percento. Le prospettive di raddrizzamento del settore a relativo breve termine sono tuttavia serie, basate sul miglioramento della situazione socio-politica del paese o ancora sulla notevole presenza di investitori europei. I punti forti della Tunisia sono i costumi da bagno (secondo fornitore dell’Ue), l’abbigliamento professionale (anche qui secondo fornitore), l’intimo femminile e lo sportswear in particolare il jeans.
L’Egitto
è il 17esimo fornitore di abbigliamento dell’Ue con una parte del 0,5 percento. Questo paese che dispone di importanti vantaggi (stipendi bassi, cotone, energia) esporta principalmente verso gli Stati Uniti, approfittando dell’accordo Qiz (con Israele e la Giordania) permettendogli di esportare a dazio zero.
La Giordania
è il 44esimo fornitore dell’Unione europea. Anche lei rivolta verso gli Stati Unii di cui è uno dei principali fornitori di abbigliamento, grazie all’accordo Qiz. (1,36 miliardi di dollari nel 2017). Il settore giordano conta 1.200 aziende e 80.000 dipendenti.
Quali sono i mezzi utilizzati dall’Unione europea per rinforzare la sua collaborazione con questa regione?
Molti discorsi. I paesi del Maghreb stimano a giusto titolo che l’Unione europea li tratti molto meno bene rispetto ai paesi asiatici. Per esempio, la Commissione europea rifiuta sempre di accordare loro lo stesso regime doganale preferenziale che viene accordato a certi loro concorrenti come Bangladesh, Cambogia o Myanmar.
Come va il settore tessile e dell’abbigliamento in Asia?
Globalmente bene. L’Asia migliora di anno in anno e fornisce oltre tre quarti delle importazioni di abbigliamento dell’Unione europea. Si tratta principalmente della Cina, del Bangladesh, dell’India, della Cambogia, del Vietnam e del Pakistan. Ma, come per il Maghreb, i loro risultati sono diversificati. La Cina fornisce un terzo delle importazioni di abbigliamento, con un ribasso del 2 percento nel 2017. Tuttavia, non è in declino, al contrario, e rinforza il proprio controllo del mercato mondiale sia nell’ambito industriale che commerciale. La strategia cinese consiste nel delocalizzare una parte della propria produzione verso paesi a basso costo beneficiando di accordi doganali privilegiati con l’UE: Vietnam, Cambogia, Myanmar, Bangladesh, ma anche Etiopia, Egitto. I rendimenti degli altri grandi fornitori asiatici sono diversificati con, da un lato, i paesi che, insieme all'Ue e tramite accordi preferenziali (Spg, Spg+, Tutto tranne le armi), proseguono nel loro rapido progresso (Bangladesh, Cambogia, Vietnam, Pakistan, Sri Lanka, Myanmar) e dall’altro, quelli che, in assenza di accordi con l'UE, stagnano o sono in declino. Si tratta dell’India, dell’Indonesia, della Thailandia, di Hong-Kong, della Malesia, delle Filippine.
Quali mezzi utilizza l’Unione Europea per rafforzare la propria collaborazione con questa regione?
La politica commerciale dell’Ue si basa essenzialmente sulla concessione di regimi speciali a diversi paesi dell’Asia per accelerarne lo sviluppo. I mezzi messi in atto sono in particolare degli accordi di libero scambio come ad esempio con il Vietnam o il Sistema delle Preferenze Generaliste (Spg). In alcuni casi, come per il Pakistan o lo Sri Lanka, l’Ue accorda il Spg+ permettendo ai paesi beneficiari di esportare a dazio libero verso l’Ue. In altri casi (Bangladesh, Cambogia, Myanmar) l’Ue accorda il regime «Tutto tranne le armi», permettendo di esportare a dazio libero verso l’Europa l’abbigliamento che fabbricano, qualunque sia l’origine dei tessuti utilizzati; ciò che si rivela essere un vantaggio competitivo enorme!
All’inizio, questi regimi hanno come controparte il rispetto dei diritti dell’uomo da parte dei paesi beneficiari.
Ma questo principio è raramente rispettato. Ad esempio, nonostante il genocidio dei Rohingya, il Myanmar continua a beneficiare di vantaggi doganali molto privilegiati.
Con Evalliance, cos’è riuscito a predisporre dalla sua creazione e quali sono i vostri progetti futuri?
Evallianceè una giovane associazione che ho creato nel 2013. Le sue attività riguardano la formazione professionale (produttività, fashion marketing, sourcing, management), la vigilia economica, l’organizzacione di missioni di BtoB, le partnership internazionali (investimenti, R&D), gli studi di mercato e il lobbying.
Lavoriamo in rete e abbiamo stabilito degli accordi di partnership con alcune camere di commercio francesi ed europee oltre che con alcune organizzazioni professionali asiatiche (Cambogia, Vietnam, Myanmar). Abbiamo degli uffici a Phnom Penh e a Rangoon e delle antenne in diversi paesi europei, in Cina e negli Stati Uniti. Contiamo inoltre su tre ambasciatori senior nel nostro consiglio di amministrazione e abbiamo così una vera e propria capacità politica. Tra i nostri diversi progetti a breve termine, citerò la creazione di un istituto di moda in Cambogia, partendo da un’analisi dei bisogni in formazione che abbiamo svolto in questo paese.
Quali sarebbero, secondo lei, le nuove "Terre Promesse" in termini di scambi con l’Ue? Quali sono oggi i fattori determinanti?
Si parla molto dell’Etiopia come del futuro atelier del mondo. Il salario minimo mensile è solo di 36 dollari mentre in Bangladesh è di 64 dollari, di 77 dollari a Myanmar o di 170 dollari in Cambogia. Inoltre, è vero che gli investitori cinesi o turchi vi sono molto presenti. Ma per il momento, questo paese fornisce solo lo 0,5 percento delle importazioni europee di abbigliamento. Si è parlato molto anche della Macedonia, ma per il momento i suoi rendimenti sono deludenti. Se dovessi stabilire una combinazione vincente a medio termine, metterei in testa il Vietnam, la Cambogia, il Marocco e… la Cina. Per quest’ultima, la «Strada della Seta» sarà un importante catalizzatore delle esportazioni.
L’immagine del tessile-abbigliamento si è offuscata, in particolare a causa dei problemi di sicurezza in Bangladesh o in Tunisia. Cosa fanno questi paesi per rassicurare gli investitori?
Nel corso di questi ultimi anni, i problemi legati alla sicurezza, in particolare al terrorismo, hanno avuto un impatto sugli scambi internazionali tessile-abbigliamento tra l’Unione europea e certi paesi di sourcing tra cui la Tunisia, la Turchia, il Bangladesh. Ma vorrei sottolineare il fatto che il non-rispetto dei diritti dell’uomo tocca anche l’attività economica di importanti fornitori dell’Europa. Penso in particolare al Bangladesh. Dal crollo del Rana Plaza a Dacca nell’aprile 2013 con i suoi 1.127 morti, la situazione non è migliorata molto in questo paese in cui le condizioni di lavoro restano generalmente inaccettabili e mediocri, nonostante gli sforzi di grandi insegne occidentali e dell’Ufficio Internazionale del Lavoro. Penso inoltre ovviamente al dramma dei Rohingya nel Myanmar, al lavoro dei bambini rifugiati siriani negli atelier turchi di confezione. Su questo piano, l’immagine del settore nell’opinione pubblica non è positiva. Tuttavia, l’attività si sviluppa sempre più, anche con i paesi più criticabili, e l’Unione europea continua ad accordare loro vantaggi preferenziali molto importanti.
Come affrontano la Quarta rivoluzione industriale le aziende? Pensa che la moda 4.0 sarà una leva di competizione per la fast fashion?
È evidente che il 4.0 trasformerà moltissimo il modo di funzionamento delle aziende industriali e la distribuzione. L’organizzazione verticale del lavoro negli atelier di confezione sarà progressivamente sostituita da lavoro collaborativo. Esistono già dei robot, associati all’intelligenza artificiale, per cucire da soli delle t-shirt, in condizioni di produttività e qualità eccellenti. Si iniziano a fabbricare vestiti con stampanti 3D. La distribuzione individualizzata con l’aiuto di droni non è più un sogno. Le aziende del futuro usciranno con progetti come quello di Amazon. Le aziende saranno presto ultra-connesse e potranno realmente personalizzare l’abbigliamento, a richiesta.
È chiaro che le prospettive di guadagno di competitività sono formidabili, sia in ambito industriale che commerciale. La professione l’ha ben capito! Già, per esempio, Lectra, il numero uno mondiale della CAO, propone un’offerta 4.0 molto interessante. Per le industrie europee e mediterranee, le sfide sono notevoli; una sfida esistenziale! La rivoluzione digitale potrebbe essere un vettore formidabile per riconquistare i mercati e rilocalizzare l’industria tessile-abbigliamento in Europa. Ma attenzione, la Cina e altri paesi asiatici l’hanno capito bene e investono anche oro nell’economia 4.0.
Foto: gentile concessione di Jean-François Limantour, Evalliance
Scritto da Anne-Sophie Castro. Traduzione ed elaborazione: Isabella Naef.