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La moda nei media: "fast fashion" e "ultra fast fashion", come definire questi termini?

Scritto da Sharon Camara

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Moda
Immagine che illustra le composizioni dei capi. Questa immagine mostra l'etichetta di un paio di jeans di H&M, realizzati in cotone, viscosa ed elastan Credits: FashionUnited
Ogni venerdì FashionUnited analizza una storia chiave della moda. Si tratta di termini di cui si parla da anni, e ancora di più nelle ultime settimane. Mentre l'Assemblea Nazionale francese ha approvato una legge per ridurre l'impatto di alcuni marchi di moda, i termini "fast fashion" e "ultra fast fashion" devono ancora essere definiti. Per il sito Novethic, è importante "definire chiaramente i contorni di un settore stravolto dall'arrivo di piattaforme di ecommerce cinesi come Shein e Temu". Mentre Le Figaro ritiene che "definirli nel modo più oggettivo possibile è un vero grattacapo". A proposito di fast fashion, Anne-Cécile Violland, deputata di Horizon per l'Alta Savoia e promotrice della proposta di legge per regolamentare il settore, ha spiegato a France Culture: "ci basiamo sul lavoro del Commissariat général du développement durable e dell'Ademe, che sollevano tre criteri di identificazione: una produzione eccessiva di abbigliamento, sproporzionata rispetto ai risultati della nostra industria francese; prodotti a basso costo, proprio legati al volume; e una pubblicità estremamente aggressiva". Tra gli altri fattori, il volume dei vestiti venduti dovrebbe aiutare a definire le aziende che appartengono al fast fashion. Secondo Le Figaro, "la fast fashion esiste dagli anni '90, con marchi di punta come Zara, H&M, Uniqlo e Primark. Anch'essa alimenta la sovrapproduzione, con un gran numero di nuovi articoli che vengono aggiunti ogni giorno. "Ma non sfugge a ogni controllo, a differenza della moda ultraveloce", spiega la deputata Anne-Cécile Violland (...) Il movimento della moda ultraveloce, emerso negli ultimi anni, punta ancora più in alto e vende quasi esclusivamente su internet". Secondo Novethic, "non è solo Shein a creare problemi (...) ma anche Zara, H&M, Décathlon e Kiabi che avranno venduto 149 milioni di capi entro il 2022 secondo l'associazione En mode climat".

I marchi si rifiutano di essere inclusi nella categoria "fast fashion"

Fast fashion, ultra fast fashion: questi termini sono molto usati al momento, ma nessuno dei marchi di moda coinvolti accetta di essere incluso in queste categorie. "Mentre aspettiamo che venga fissata una data, (l'esame da parte del Senato e l'applicazione della nuova legge, ndr), tutti, dietro le quinte, cercano di imporre le proprie ragioni. Ciò che sembrava riguardare solo alcune piattaforme come Shein o Temu, ora interessa tutti i rivenditori. Tutti vogliono evitare di essere inclusi nel campo di applicazione della futura legge, che renderà più costosi gli articoli di moda usa e getta", osserva Le Figaro.

In un'intervista rilasciata a FashionUnited, Marion Bouchut, direttore della comunicazione di Shein Europe, ha dichiarato: "Molte persone non sanno che abbiamo un modello innovativo di produzione in piccoli lotti, che ci permette di produrre 'on demand' (in lotti di appena un centinaio di pezzi), riducendo al minimo lo spreco di scorte in eccesso. Di conseguenza, contrariamente a quanto si potrebbe pensare, i nostri livelli di scorte in eccesso sono in realtà molto più bassi della media del settore tradizionale della vendita al dettaglio di moda", difendendosi così dalla produzione di massa.

Il marchio Shein risponde alle accuse mosse contro di lui nel 2023

H&M, il gigante svedese della moda a basso prezzo, si schiera sulla stessa linea, sostenendo di essere ben lontano dal modello del fast fashion: "Alla richiesta di Afp di commentare, H&M "accoglie con favore lo spirito della legge", ma invita gli eurodeputati a basare le loro misure "su criteri chiari, basati sulla scienza e sulla pratica di mercato". E di tenere conto dei progetti già "in corso", come l'armonizzazione delle pratiche a livello europeo".

Per quanto riguarda Primark, "l'azienda irlandese che conta 27 negozi in Francia, avanza un'argomentazione forte: il marchio non è su internet, e i suoi negozi che sono stati criticati per essere dei veri e propri ipermercati della moda, danno lavoro a 7.000 persone in tutta la Francia, spiega Le Figaro.

Pubblicato originariamente sull'edizione francese, tradotto da Isabella Naef per fashionunited.it

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