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Moda: il mercato asiatico in accelerazione sulla scia della Cina

Scritto da FashionUnited

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Pexels, Ksenia Chernaya

Le aziende della moda italiane stanno registrando una crescita importante ma manca ancora un po' per tornare ai livelli pre-crisi. Questo uno degli aspetti evidenziati dall'Area studi Mediobanca che ha messo a punto il report sul Sistema moda. L'indagine aggrega i dati finanziari di 70 multinazionali della moda e delle 134 grandi aziende moda Italia.

Dati alla mano, i primi nove mesi del 2021 segnano per i maggiori player mondiali della moda un rimbalzo del giro d’affari del +32 per cento. Il mercato europeo ha spinto meno (+25 per cento), penalizzato dagli ancora limitati flussi turistici, mentre quello asiatico ha visto un’accelerazione sulla scia della Cina (+38 per cento escludendo il Giappone) insieme con quello americano (+37 per cento, trainato dagli Stati Uniti). Per l’intero anno 2021 i primi dati indicano una repentina ripresa con una crescita del fatturato a livello aggregato del +28 per cento, il che permette alle multinazionali della moda di superare i livelli pre-crisi (+10 per cento). Nel 2021 le vendite online, si legge nel report di Mediobanca, proseguono nella loro crescita (accelerata durante la pandemia: +60 per cento nel 2020) con un +25 per cento, raggiungendo oltre un quarto del giro d’affari complessivo (quota generalmente più elevata per i Gruppi statunitensi rispetto a quelli europei).

Al primo posto per ricavi tra i colossi mondiali figura Lvmh (44,7 miliardi)

Nel 2020 i 70 maggiori player mondiali della moda (società con un giro d’affari superiore a 1 miliardo), hanno fatturato complessivamente 379 miliardi (-13,8 per cento sul 2019 e +4,9 per cento sul 2016), di cui il 55 per cento generato dai gruppi europei e il 34 per cento dai nordamericani. Il calo del 2020 ha fatto arretrare i ricavi delle multinazionali della moda di tre anni fino ai livelli del 2017. Fra i 30 gruppi europei, l’Italia con le sue sette big è il paese più rappresentato a livello numerico, ma è la Francia, con una quota del 38 per cento del fatturato aggregato, a aggiudicarsi il primato per giro d’affari.

Al primo posto per ricavi tra i colossi mondiali figura Lvmh (44,7 miliardi). Seguono Nike (36,3 miliardi), Inditex (20,4 miliardi), che controlla Zara, la tedesca Adidas (19,8 miliardi), la svedese H&M (18,6 miliardi), la giapponese Fast Retailing (15,9 miliardi), che detiene il brand Uniqlo, ed EssilorLuxottica (14,4 miliardi). Prima tra gli italiani Prada (2,4 miliardi), al 38esimo posto in classifica. In contrazione anche la redditività (ebit margin aggregato al 9,7 per cento dal 13,3 per cento del 2019), in base alla quale Hermès si conferma al primo posto (ebit margin al 32,2 per cento), davanti a Lvmh�divisione Fashion (30,5 per cento), Moncler (25,6 per cento) e Kering (23,9 per cento).

Si conferma importante la presenza di gruppi stranieri nella moda italiana

Il giro d’affari delle grandi aziende italiane della moda (società con un fatturato superiore a 100 milioni) dovrebbe attestarsi al +22 per cento nel 2021, con un ritorno ai livelli pre-crisi atteso nel 2022. Dopo anni di andamenti più che positivi, nel 2020 le grandi aziende moda Italia hanno subìto un duro contraccolpo a causa della pandemia, registrando un giro d’affari totale di 49,8 miliardi, in contrazione del -22,8 per cento sul 2019 e del -9,7 per cento sul 2016. Il loro peso sul Pil nazionale è dello 0,9 per cento (1,0 per cento nel 2016). Tra i comparti spicca l'abbigliamento, che determina il 43,9 per cento dei ricavi aggregati, seguito da pelli, cuoio e calzature (27,1 per cento). Quanto al trend delle vendite nel 2019-2020, il tessile registra il calo maggiore (-34,6 per cento), mentre la gioielleria il minore (-19,8 per cento). In sofferenza anche la redditività con l’ebit margin aggregato che scende all’1,8 per cento (dal 7,8 per cento del 2019). Gioielleria e tessile sono i comparti più redditizi nel 2020 (ebit margin, rispettivamente, del 6,9 per cento e 3,2 per cento).

Si conferma importante la presenza di gruppi stranieri nella moda italiana: 59 delle 134 grandi aziende moda Italia hanno una proprietà straniera che controlla il 38,5 per cento del fatturato aggregato (il 19,1 per cento è francese, fra cui Kering con l’8,7 per cento ed Lvmh con il 6,4 per cento). L’impatto della crisi è stato più evidente per le imprese a controllo italiano rispetto a quelle a controllo estero.

La proiezione internazionale è una delle caratteristiche più rappresentative delle società manifatturiere della moda italiana: il 66,6 per cento del fatturato complessivo proviene, infatti, dall’estero, con in testa la gioielleria (75,7 per cento), l’abbigliamento (69,9 per cento) e il tessile (68,3 per cento). Nel 2020 cala anche l’occupazione, con circa 15.400 addetti in meno per una forza lavoro totale di quasi 265mila unità a fine 2020.

Donne ai vertici: più presenti nelle aziende francesi e statunitensi

Dall’analisi della varietà di genere nei board delle 70 multinazionali mondiali della moda emerge che la presenza femminile cala all’aumentare del livello di responsabilità in azienda: la quota di donne sul totale della forza lavoro è mediamente pari al 64,3 per cento, ma scende al 43,0 per cento nei ruoli direttivi e al 32,7 per cento a livello di consiglio di amministrazione. I gruppi statunitensi hanno più consiglieri donna (37,9 per cento) rispetto a quelli europei (32,5 per cento). Ampiamente sopra la media europea si collocano i player francesi con una quota di donne presenti nei consigli di amministrazione pari al 41,7 per cento. I gruppi italiani si fermano al 27,5 per cento. Le meno rappresentate sono le donne giapponesi: solo una ogni dieci consiglieri.

Dall’analisi dei bilanci di sostenibilità 2020 emerge la crescente attenzione alle tematiche Esg (Environment, social and governance), accelerata dalla pandemia. Le multinazionali della moda si sono impegnate per un futuro più sostenibile e per la salvaguardia dell’ambiente, con crescente incisività rispetto allo sforzo compiuto negli anni precedenti. Diminuiscono i consumi idrici (da 350 metri cubi di acqua consumata per un milione di fatturato nel 2019 a 304 nel 2020), le emissioni di CO2 (da 1.528 tonnellate di CO2 per un milione di fatturato nel 2019 a 1.512 nel 2020), i rifiuti prodotti (da 3,0 tonnellate per un milione di fatturato nel 2019 a 2,7 nel 2020) e aumenta il ricorso all’energia elettrica rinnovabile (dal 49,9 per cento nel 2019 al 57,6 per cento nel 2020, era al 42,6 per cento nel 2018). Mediamente più sostenibili i gruppi statunitensi rispetto a quelli europei e asiatici: relativamente all’utilizzo di energia rinnovabile, i gruppi europei si posizionano meglio degli statunitensi, attingendo da fonti green il 67,5 per cento del proprio fabbisogno energetico rispetto al 48,9 per cento degli americani.

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