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Comunicare la sostenibilità: come evitare passi falsi ed essere efficaci

Scritto da Isabella Naef

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Moda |Interview

Pexels, Akil Mazumder

Comunicare la sostenibilità (vera o presunta) è stato il mantra di molte aziende del fashion negli ultmi anni. Purtroppo, questo ha dato origine a due fenomeni: il conosciuto greenwashing e il meno famoso, ma altrettanto diffuso, greenhushing, ossia il cosiddetto silenzio verde (dall'inglese hushing silenzio), su progetti o risultati green, per paura di sbagliare. Ma cosa è meglio fare quando si ha a che fare con clienti sempre più sensibili nei confronti della tutela del pianeta e sempre più decisi, soprattutto quelli delle generazioni Z e successive, a favorire marchi e griffe attenti all'ambiente, che abbiano adottato strategie mirate e ragginto risultati concreti? FashionUnited lo ha chiesto a Simone Pedrazzini, direttore di Quantis Italia, società di consulenza attiva nel campo della sostenibilità ambientale che supporta le aziende nell'affrontare e ridurre il loro impatto sull'ambiente. Con sedi in Francia, Germania, Stati Uniti e Svizzera, dal 2019 Quantis è attiva in Italia.

Intanto facciamo chiarezza: cosa sono greenwashing e greenhushing?

Al centro delle sfide che le imprese devono affrontare quando comunicano i progressi di sostenibilità della loro organizzazione, oppure le caratteristiche sostenibili di un prodotto, troviamo la pratica del greenwashing. Ci vuole davvero poco a fare greenwashing in modo intenzionale o involontario. Si parla di greenwashing quando un’azienda esagera le proprie credenziali ambientali dipingendo se stessa o i suoi prodotti come sostenibili, senza intraprendere le azioni che giustificherebbero tale rivendicazione o senza documentarla adeguatamente. All’estremo opposto, la paura di dire la cosa sbagliata, può portare a non dire niente di significativo o a non dire proprio nulla.

Ma spesso il greenwashing è legato all'ignoranza?

Diciamo che la differenza tra “greenwashing intenzionale” e il “greenwashing accidentale” risiede nel livello di consapevolezza. Nel greenwashing intenzionale sono selezionate volutamente e consapevolmente solo le caratteristiche positive tralasciando gli impatti negativi, esagerare le proprie rivendicazioni, oppure omettere informazioni importanti: ecco la definizione per eccellenza di greenwashing intenzionale. Invece, ripetendo a pappagallo o creando messaggi imprecisi e non controllati, i marketer possono cadere nel greenwashing senza saperlo. Forse credono che le loro dichiarazioni siano vere, o perché si basano solo su cose che hanno sentito da altri, o perché ignorano i fattori che le renderebbero false.

E quali sono i rischi per chi comunica così?

Il greenwashing non nuoce solo ai consumatori, ma nel lungo periodo danneggia anche i marchi. Come una macchia d’erba su un telo bianco, il greenwashing lascia un segno sulla reputazione dell’azienda che sarà difficile rimuovere e superare. Il risultato è stato che molti brand hanno scelto di non parlare più del proprio impegno per la sostenibilità e Quantis ha osservato che sempre più aziende preferiscono togliere informazioni dai siti piuttosto che aggiungerle.

Quindi, stando zitti, facendo il cosiddetto greenhushing, si evitano problemi?

Diciamo che all'estremo opposto della comunicazione in tema di sostenibilità esiste il greenhushing, il silenzio sui temi climatici, che descrive situazioni in cui le aziende non comunicano adeguatamente oppure rifiutano di comunicare le loro azioni a favore dell’ambiente. Le ragioni sono la paura di ricevere accuse di greenwashing anche perchè l’aumento delle normative mette i brand sotto esame e un passo falso potrebbe danneggiare la reputazione di un marchio o sfociare in azioni legali. Inoltre, gli obiettivi di sostenibilità non sono più un’eccezione, ma lo standard. Cambiamenti incrementali, non entusiasmanti o irrilevanti non sono l’ideale per raccontare una storia interessante. Insomma, se gli sforzi dell'azienda sono focalizzati sul fare meno danni o sono slegati dalla proposta di valore, è difficile creare una comunicazione incisiva che generi fiducia e conquisti i cuori e le menti. Optando per il greenhushing le aziende rischiano di apparire distaccate, indifferenti o fuori dal mondo.

Insomma, cosa devono fare le aziende in tema di sostenibilità e comunicazione?

Innanzitutto partire dal fatto che parole come “green”, “neutralità carbonica” e “net zero” possono inizialmente generare entusiasmo, ma è chiaro che i conti non tornano. Se così tante aziende hanno raggiunto lo “zero netto”, perché non vediamo più progressi? Le sfide che il pianeta deve affrontare in fatto di emergenza climatica, perdita di biodiversità, scarsità idrica e degradazione del suolo continuano a crescere. I messaggi che una volta alimentavano l’ottimismo dei consumatori oggi sono accolti con cinismo. L'approccio corretto per i brand prevede una fase di valutazione, dove l'azienda possa comprendere dove si trova e quali sono i punti da migliorare; la seconda fase è volta a stabilire dove si vuole essere da li a un anno; la terza è la fase di trasformazione, quella concreta che fissa obiettivi operativi. Senza dubbio posso dire che una comunicazione maggiormente coraggiosa a proposito di questa terza fase, aiuterebbe tutto il sistema, permettendo alla comunità di avanzare in maniera forte. Bisogna far uscire i temi legati alla sostenibilità dalla divisioni delle aziende espressamente dedicati a essi, bisogna parlare con chi si occupa di finanza, di risorse umane e anche con l'esterno.

Ma a che punto sono le aziende da questo punto di vista?

Oggi tante aziende hanno fatto progressi, ma magari hanno meno concretezza sul come raggiungere gli obiettivi. Dal mio osservatorio vedo che negli ultimi due anni è aumentata la consapevolezza: chi diceva "la mia azienda è gia green", si è reso conto che, pur avendo elementi interessanti, deve fare ancora molta strada, magari spingendo sul sourcing. La vera opportunità è comunicare per ispirare altri marchi de settore: ben vengano tavoli di lavoro e alleanze come il Fashion Pact (coalizione di aziende globali leader del settore della moda e tessile).

I marchi della moda come possono costruire una strategia corretta?

In primo luogoo posso suggerire di andare oltre al tema dell'effetto serra, pensando all'acqua, alla biodiversità, per esempio. Il secondo tema chiave sono le materie prime: l'80 per cento dell'impatto di un'azienda del fashion è legato alla fase di trasformazione. Infine, bisogna esortare le imprese a collaborare, a fare sistema, solo così si possono affrontare le sfide.

Può dare qualche consiglio pratico?

Insistere sull'approccio scientifico e olistico: il pianeta ci manda messaggi forti e la risposta deve essere adeguata. Tutti parlano di neutralità, ma sappiamo che questa implica azioni forti e trasformazioni radicali.
Comunicare gli sforzi in fatto di sostenibilità può aiutare a stabilire normative e a creare pressioni di mercato che spingano all’azione altre organizzazioni e altri soggetti lungo la catena del valore e persino i consumatori.

Simone Pedrazzini, direttore Quantis Italia, courtesy of Quantis
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