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Fast fashion: indagine canadese rivela livelli elevati di sostanze chimiche nei capi

Scritto da Isabella Naef

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Moda

Shein website

Fast fashion ancora sotto accusa. Mentre il mondo della moda, grandi catene low cost comprese, sta dando segnali di impegno concreto nei confronti della sostenibilità sociale, ambientale ed economica, inneggiando alla trasparenza della catena di approvvigionanento e della composizione dei capi, alcuni retailer sono stati oggetto di un’indagine del programma televisivo canadese Cbc Marketplace. Dall’indagine, pubblicata anche su Cbc News, emerge che alcuni dei prodotti venduti da aziende del fast fashion sarebbero dannosi per la salute. Nel dettaglio, su 38 prodotti ordinati dai giganti del fast fashion, Cbc Marketplace ha trovato un articolo su cinque con livelli elevati di sostanze chimiche, tra cui piombo, ftalati e Pfas (sostanze perfluoroalchiliche utilizzate in campo industriale per la loro capacità di rendere i prodotti impermeabili all’acqua e ai grassi. Oggi queste sostanze sono conosciute per la contaminazione ambientale che hanno prodotto negli anni proprio a causa della loro stabilità termica e chimica, che le rendono resistenti ai processi di degradazione esistenti in natura).

“La gente dovrebbe essere scioccata”, ha detto Miriam Diamond, chimico ambientale e professoressa all’Università di Toronto, intervistata dal media canadese. Diamond ha supervisionato i test di laboratorio che Marketplace ha commissionato.

Ora più che mai pare abbia un senso che le etichette della moda puntino a una “trasparenza radicale”

Gli esperti hanno scoperto che una giacca per bambini, acquistata dal rivenditore cinese Shein, conteneva quasi 20 volte la quantità di piombo che Health Canada dice essere sicura per i bambini. Considerata pericolosa anche una borsa che conteneva più di cinque volte la quantità di piombo che Health Canada considera sicura nei prodotti per bambini.

Shein, che vende prodotti sia con il proprio marchio sia di fornitori terzi, ha prontamente inviato una dichiarazione via email a Marketplace dicendo che aveva rimosso la borsa e la giacca dalla sua app, e avrebbe smesso di lavorare con i fornitori interessati fino a quando il problema non fosse stato risolto. “Siamo impegnati a migliorare continuamente la nostra catena di approvvigionamento”, ha detto l’azienda.

Non più tardi di questa estate Shein è stato messo sotto esame per la mancanza di trasparenza della catena di fornitura. Nel dettaglio, l’azienda cinese, che è valutata intorno ai 15 miliardi di dollari, conosciuta per la vendita online di moda ultra economica fuori dalla Cina, è stata chiamata in causa per aver dichiarato falsamente che le sue fabbriche erano certificate dall’Organizzazione Internazionale per la standardizzazione (Iso) e dall’Organizzazione per gli standard lavorativi Sa8000. Secondo l’agenzia di stampa Reuters, nessuna delle due società ha rilasciato certificazioni a Shein che si è affrettato a rimuovere in nomi delle due organizzazioni dalla pagina dedicate alla responsabilità sociale.

Anche altri nomi sono finiti nell’indagine di Cbc Marketplace che ha trovato indumenti contenenti livelli elevati di sostanze chimiche anche con etichetta Zaful e AliExpress.

Diamond, inoltre, ha espresso preoccupazione per tutta l’industria, osservando che non è solo il consumatore che potrebbe essere esposto agli effetti nocivi delle sostanze chimiche, ma l’intera catena di approvvigionamento.

Insomma, ora più che mai pare abbia un senso che le etichette della moda puntino a una “trasparenza radicale”. Le informazioni sulla provenienza dei tessuti e la composizione dei capi sono sempre più richieste da parte dei consumatori e non mancano esempi virtuosi di trasparenza che stanno cercando di fare scuola in tutto il mondo.

Everlane, azienda americana di abbigliamento uomo e donna e accessori, con sede a San Francisco, per esempio, esplicita in maniera trasparente come arriva al prezzo retail sul cartellino di ciascun singolo capo. La società ha deciso di abbracciare una politica di “trasparenza radicale”. Esempio: un paio di pantaloncini da donna in cotone costano 43 euro, ed è indicato anche che nel retail tradizionale un simile capo costa 86 euro. Poi è spiegato che il tessuto costa 5,64 euro, i pezzi hardware (bottoni e cerniera) costano 1,13 euro, la confezione 7,74 euro, le tasse di spedizione 2,41 euro e il trasporto 0,56 euro. Il totale è 17,48 euro che, sul cartellino diventa 43 euro, ossia 2,45 il prezzo di costo (mentre normalmente i retailer moltiplicano per 5 o 6 volte il prezzo di costo per arrivare al prezzo finale).

Sul sito dell’azienda fondata nel 2010 da Michael Preysman, sono indicati i luoghi di produzione di ciascuna tipologia di prodotto (per esempio scarpe e borse sono realizzate in Italia) e i criteri che hanno portato il marchio a scegliere quel fornitore.

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