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Moda e sostenibilità: Patagonia, Benetton e Asos tra le aziende virtuose

Scritto da Isabella Naef

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Moda

La moda genera un fatturato annuo globale di oltre 2,5 trilioni di dollari, impiega più di 300 milioni di persone in tutto il mondo e svolge un ruolo fondamentale nella vita sociale e culturale di ognuno di noi. One Ocean foundation (Oof) ha cercato di capire come ridurne l’impatto ambientale e renderla più sostenibile? In Business for Ocean sustainability - The Fashion Industry, indagine realizzata in collaborazione con Sda Bocconi Sustainability Lab e il patrocinio di Camera nazionale della moda italiana, sono proposte 7 linee guida per un’industria sostenibile della moda.

One ocean foundation, in collaborazione con Sda Bocconi Sustainability Lab presenta 7 linee guida per un’industria sostenibile

L’aumento della ricchezza, la crescita della popolazione e la diffusione di nuovi modelli di consumo come il fast fashion sono solo alcuni dei fenomeni strutturali e generazionali dell’industria della moda, responsabili delle pressioni esercitate sull’ambiente e, in particolare, sulle acque del pianeta, si legge in una nota. Basti pensare, evidenzia l'indagine, che i solventi e i coloranti impiegati nel lavaggio e nella produzione dei capi sono responsabili di circa il 20-25 per cento dell'inquinamento delle acque industriali, che il 35 per cento delle microplastiche nell’oceano proviene da tessuti sintetici e che sono all’incirca 1400 trilioni le microfibre che inondano i nostri mari, rendendoli tossici.

Secondo l’analisi di One Ocean foundation Business for Ocean Sustainability - A Global Perspective, che ha coinvolto un team di 56 scienziati, studiosi ed esperti internazionali, l’industria dell'abbigliamento mostra un impatto determinante, non solo quando si parla di microplastiche, ma anche in riferimento a 4 degli 11 Good environmental status indicators come rifiuti marini, eutrofizzazione, contaminanti dispersi nelle acque e nel cibo. Responsabile dal 4% al 10% delle emissioni globali di Co2, di cui il 30 per cento viene assorbito dagli oceani, l'industria della moda supera l'impronta di carbonio dei voli internazionali e del trasporto marittimo, pari circa alla stessa quantità totale di gas serra emessa ogni anno da Germania, Francia e Regno Unito messe insieme.

“Oggi non è più il momento di interrogarsi se valga la pena agire; un’esistenza senza i preziosi benefici che il mare ci dona, per il nostro benessere e la nostra salute, legati a doppio filo alle condizioni ambientali, sarebbe semplicemente impensabile. Oggi è il momento dell’azione, interrogandosi sui passi necessari per invertire la rotta verso una strategia di profitto che sia sostenibile e abbia a cuore la salute delle nostre acque. Il fatto che Camera della moda abbia offerto il patrocinio per il nostro studio mostra come l’industria del fashion abbia compreso quest’urgenza e come intenda dedicare energie e impegno per cambiare lo status quo”, ha commentato Riccardo Bonadeo, vicepresidente di One Ocean foundation.

Fare ricorso a una pianificazione strategica, cruciale per determinare il proprio impatto ambientale, definire obiettivi concreti, implementare le iniziative lungo tutta la value chain e monitorare i risultati e adottare pratiche sostenibili in fase di coltivazione e produzione delle materie prime sono le prime due delle 7 linee guida suggerite.

Ripensare i modelli e gli imballaggi, dalla progettazione alla produzione, fino allo smaltimento; migliorare la sostenibilità della filiera logistica per una riduzione delle emissioni di Co2 e sensibilizzare i propri clienti verso comportamenti di consumo sostenibili, attraverso modelli di business innovativi e precise indicazioni per la cura degli indumenti sono altri suggerimenti.

Svolgere attività di ricerca e sviluppo in ogni fase della value chain e garantire trasparenza e tracciabilittà dei prodotti, favorire partnership virtuose e adottare standard e certificazioni per rafforzare e ufficializzare il proprio impegno in materia di sostenibilità sono le ultime due linee guida proposte.

Best practice che alcuni brand dell’industria, in alcuni passaggi specifici della value chain, hanno già iniziato ad adottare con successo, si legge nella nota. "Tra i casi più virtuosi rientrano per esempio quello di Patagonia, che nella scelta della materia prima per la produzione delle tese dei cappelli (fase 1 della value chain: materie prime e produzione) ha fatto ricorso a materiali riciclati, come NetPlus, un materiale interamente ricavato dalle reti di pesca dismesse e raccolte da una comunità di pescatori in Sud America", spiegano gli esperti.

"Ma anche di Asos, che ha lanciato una collezione interamente ispirata ai principi dell’economia circolare (fase 2 della value chain: progettazione). Oppure, ancora, di Benetton Group, che ha realizzato una guida per spiegare ai consumatori come prendersi cura dei propri capi per farli durare più a lungo (fase 4 della value chain: consumo e utilizzo)", conclude la nota.

Foto: Pexels

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