Se il business è vendere solo capi vergini è difficile allinearsi a obiettivi di sostenibilità
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La normativa in materia di sostenibilità si fa sempre più stringente, le direttive europee impongono nuove regole e i clienti, anche se per il momento in percentuali non così rilevanti, richiedono un approccio diverso da parte delle aziende in tema di impatto ambientale. FashionUnited, quindi, prosegue il percorso iniziato tempo fa e dedicato ad approfondire gli aspetti legati alla sostenibilità, alla normativa e ai suggerimenti per le realtà dell'industria della moda.
Questa volta FashionUnited ha intervistato Saverio Lapini, co-fondatore e ceo di Ollum srl, società di consulenza con sede ad Arezzo, specializzata in sostenibilità d'impresa che accompagna le aziende in un percorso completo verso la riduzione degli impatti ambientali. L'articolo fa il punto sui primi passi da compiere per analizzare l'impatto ambientale aziendale, il cosiddetto check up di sostenibilità, su quali percorsi è meglio puntare e sullo stato dell'arte della filiera moda.
Che reazione hanno le aziende davanti ai processi che le traghettano verso la sostenibilità? Ci credono davvero?
La percezione che molti hanno è la confusione: vengono sollecitati e stimolati a intraprendere percorsi di sostenibilità e di rendicontazione dell'impatto ambientale dal capo filiera e si vedono "costretti" ad adeguarsi per poter continuare a lavorare con determinati clienti. Le richieste, che comportano costi aggiuntivi per l'azienda, però, non vanno in alcun modo a influenzare il prezzo a cui vendono i loro prodotti al capo fliera. Ne discende che, laddove è possibile, le imprese temporiggino, in attesa di una vera e propria obbligatorietà a livello normativo. Insomma, le realtà che spontaneamente intraprendono percorsi di sostenibilità e che ci credono davvero sono pochissime.
Quali sono i primi passi necessari per valutare l'impatto dell'azienda?
Dal punto di vista del prodotto si deve procedere con l'Lca, ovvero il Life cycle assessment, una metodologia di calcolo analitica e sistematica che ha lo scopo di misurare l’impatto ambientale di un prodotto o servizio lungo tutto il suo ciclo di vita. Va distinto dal Social life cycle assessment, che valuta gli impatti sociali e sociologici di un prodotto o servizio lungo tutto il suo ciclo di vita. Tornando all'analisi Lca, l'impatto ambientale complessivo di un prodotto lungo tutte le fasi del suo ciclo di vita, va dalle materie prime, alla produzione, al trasporto, all'utilizzo e, infine, smaltimento. Questo approccio olistico viene definito “dalla culla alla tomba” (from cradle to grave). La metodologia Lca è rigorosa, analitica e scientifica, ed è basata su linee guida riconosciute a livello internazionale (Iso 14040 e Iso 14044). Si tratta dello strumento per eccellenza di calcolo dell’impronta ambientale di prodotti e servizi. Tralasciando gli aspetti reputazionale, oltre alla identificazione degli impatti ambientali di un prodotto, l'Lca individua inefficienze nei processi, riduce gli sprechi e i costi, aumenta la competitività e la reputazione aziendale e può portare alla riduzione dei costi e al miglioramento dell’efficienza e alla riduzione degli sprechi. La metodologia Lca segue un percorso strutturato e predefinito e si divide in 4 fasi.
Quali sono le fasi della metodologia del Life cycle assessment?
Definizione dell’obiettivo dello studio e del campo di applicazione è la prima in cui viene stabilito lo scopo dell’analisi e si definiscono i cosiddetti confini del sistema di prodotto, ovvero quali processi e flussi inserire nello studio, e l’unità funzionale (kg di prodotto, durata di vita.). La compilazione dell’inventario del Ciclo di vita (Lci, Life cycle inventory) è la seconda fase in cui vengono raccolti dati quantitativi precisi su tutti i flussi di materia ed energia in entrata (input) e in uscita (output) dal sistema oggetto dell’analisi. Questa fase richiede database Lca certificati. La terza è la valutazione degli impatti ambientali (Lcia, Life cycle impact assessment). Per ogni elemento dell’inventario vengono calcolati i rispettivi impatti ambientali, suddivisi in categorie d’impatto (per esempio emissioni di gas serra, consumo di risorse, inquinamento del suolo). Nella fase finale si svolge una valutazione complessiva, che aiuta a identificare le principali criticità nel ciclo di vita del prodotto, utile per definire piani di miglioramento e azioni di ottimizzazione.
Generalizzando: da dove arriva l'impatto?
Dalle materie prime, ovvero dai materiali impiegati, dalla manifattura, ovvero, per esempio, dal consumo energetico necessario per la realizzazione del prodotto, dalla fase d'uso, quella che può avere un impatto maggiore, mi riferisco ai lavaggi, al rilascio di microplastiche, alla fase legata al fine vita del capo o dell'accessorio, se si parla di abbigliamento. Discarica, incenerimento o riciclo sono le opzioni possibili.
Come è possibile ridurre l'impatto dei materiali oppure fare in modo che il prodotto sia riciclabile?
Semplifcando possiamo dire che ci sono diverse leve: due sono certe e una terza è maggiormente rischiosa. La prima consiste nell'incrementare la percentuale di materiali ricicalti nel prodotto, e la seconda nel sostituirli con materiali di origine vegetale, per esempio un filo di canapa. Certo, non si tratta di un cambiamento radicale ma consente all'azienda di non impattare sulla produzione. In questi casi cambia il fornitore del materiale che sarà attivo nel segmento dei tessuti riciclati o vegetali. La terza opzione, invece, consiste nel realizzare il medesimo prodotto riducendo i materiali: il rischio risiede nel creare un prodotto meno resistente e che avrà un ciclo di vita più breve.
Come si incide, invece, sulla fase d'uso del prodotto e sul fine vita?
Qui i lavaggi hanno sicuramente un impatto sensibile: creare capi che si devono lavare di meno e a basse temperature o a freddo è una delle possibili soluzioni. Faccio l'esempio dei jeans: diversi studi hanno rivelato che le persone erano portate a lavare i capi in denim perchè dopo usi anche brevi il pantalone non aderiva più alla gamba, perdeva "consistenza". Con il tempo, quindi, sono state inserite parti sintetiche che conferiscono una elasticità in grado di garantire una determinata vestibilità più a lungo. Le temperature di lavaggio più basse, invece, sono suggerite dall'etichetta con le istruzioni ma, naturalmente, nessuno può controllare che a casa siano effettivamente rispettate. Relativamente al fine vita, invece, la regola è che quando un capo è monomateriale è facilmente riciclabile. Se, invece, per esempio, è al 60% viscosa e al 40% nylon è impossibile da riciclare in quanto, se venisse messo in un grande calderone ne uscirebbe un filato inutilizzabile, che va a finire in discarica. Diciamo che se la composizione di un prodotto scende al di sotto del 98% di un materiale non è possibile riciclarlo.
La moda, con la stagionalità delle collezioni, è "insostenibile per vocazione" dal punto di vista ambientale, ma oltre a quello che ha spiegato fino a ora, cosa è possibile fare per ridurre l'impatto?
Lavorare sulla durevolezza del bene e sulla gestione delle eventuali riparazioni, per esempio, è una strada da percorrere. Opportunità di business arrivano anche dalla vendita dei capi di seconda mano, così anche dalla gestione della "fase d'uso dei prodotti". In questi segmenti di mercato ci sono grandi chance. Se, invece, il business è vendere solo capi vergini non sarà possibile essere allineati a obiettivi di sostenibilità.