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Shein sotto esame per la mancanza di trasparenza della catena di approvvigionamento

Scritto da FashionUnited

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Moda
Foto: Shein website

Shein sotto esame per la mancanza di trasparenza della catena di fornitura. Il gigante del fast fashion Shein, infatti, è stato accusato di scarsa trasparenza nella catena di approvvigionamento. Nel dettaglio, l'azienda cinese, che è valutata intorno ai 15 miliardi di dollari, conosciuta per la vendita online di moda ultra economica fuori dalla Cina, è stata chiamata in causa per aver dichiarato falsamente che le sue fabbriche erano certificate dall'Organizzazione Internazionale per la standardizzazione (Iso) e dall'Organizzazione per gli standard lavorativi Sa8000.

Le etichette della moda saranno sempre più spesso chiamate ad azioni di "trasparenza radicale"

Secondo l'agenzia di stampa Reuters, nessuna delle due società ha rilasciato certificazioni a Shein che si è affrettato a rimuovere in nomi delle due organizzazioni dalla pagina dedicate alla responsabilità sociale.

Per un'azienda che vende abiti da 15 euro e top da 3 euro in fibre per lo più non etiche, Shein dovrebbe essere maggiormente trasparente sul come e dove produce i suoi vestiti e in quali condizioni. Nel Regno Unito, secondo il Modern Slavery Act del 2015, le aziende che vendono più di 36 milioni di sterline di beni all'anno devono rendere disponibili queste informazioni sui loro siti web, dichiarando chiaramente di combattere il lavoro forzato.

Sta di fatto che queste informazioni non sono attualmente disponibili, anche se Shein ha replicato alla Reuters che sta lavorando su un testo di policy per i requisiti che sarà pubblicato sul suo sito web nel Regno Unito.

Lo scorso marzo Good on You, una società che valuta i marchi di moda per le loro credenziali etiche, ha valutato l'impegno ambientale di Shein "molto scarso". "Non ci sono prove che abbia intrapreso azioni significative per ridurre o eliminare sostanze chimiche pericolose. Usa pochi materiali ecologici. Non ci sono prove che riduca le emissioni di carbonio e di altri gas serra nella sua catena di approvvigionamento. Non ci sono prove che abbia una politica per minimizzare l'impatto delle microplastiche", si legge nella valutazione di Good on you.

Anche il suo rating del lavoro è "molto scarsa". "Non ci sono prove che abbia iniziative di empowerment dei lavoratori come la contrattazione collettiva o il diritto di presentare un reclamo. Si approvvigiona nella fase finale della produzione da paesi con un rischio estremo di abuso del lavoro. Non ci sono prove che garantisca il pagamento di un salario di sopravvivenza nella sua catena di approvvigionamento. Verifica una parte della sua catena di approvvigionamento, ma non specifica quale percentuale".

Insomma, si tratta di informazioni sempre più richieste da parte dei consumatori e non mancano esempi virtuosi di trasparenza che stanno cercando di fare scuola in tutto il mondo.

Everlane, azienda americana di abbigliamento uomo e donna e accessori, con sede a San Francisco, per esempio, esplicita in maniera trasparente come arriva al prezzo retail sul cartellino di ciascun singolo capo. La società ha deciso di abbracciare una politica di "trasparenza radicale". Esempio: un paio di pantaloncini da donna in cotone costano 43 euro, ed è indicato anche che nel retail tradizionale un simile capo costa 86 euro. Poi è spiegato che il tessuto costa 5,64 euro, i pezzi hardware (bottoni e cerniera) costano 1,13 euro, la confezione 7,74 euro, le tasse di spedizione 2,41 euro e il trasporto 0,56 euro. Il totale è 17,48 euro che, sul cartellino diventa 43 euro, ossia 2,45 il prezzo di costo (mentre normalmente i retailer moltiplicano per 5 o 6 volte il prezzo di costo per arrivare al prezzo finale).

Sul sito dell'azienda fondata nel 2010 da Michael Preysman, sono indicati i luoghi di produzione di ciascuna tipologia di prodotto (per esempio scarpe e borse sono realizzate in Italia) e i criteri che hanno portato il marchio a scegliere quel fornitore.

Del resto, approccio umano, sostenibilità sociale, trasparenza sono priorità per i consumatori anche quando comprano moda. Priorità alle persone, omnicanalità in chiave locale e maggiore attenzione alla sicurezza sono i fattori chiave che permetteranno ai brand di moda di coinvolgere i consumatori nel post-pandemia. Così spiega la ricerca “The Future of retail store and customer engagement in the new normal”, condotta dagli studenti del Mafed, il Master in Fashion, experience & design management di Sda Bocconi, e promossa da Salesforce, azienda attiva nel customer relationship management.

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