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Greenwashing: la classifica dei marchi secondo Greenpeace

Scritto da Isabella Naef

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Moda

Courtesy of Greenpeace

Il greenwashing è un fenomeno tangibile nell'industria e la moda non fa eccezione, almeno stando al rapporto di Greenpeace Germania “Greenwash danger zone. 10 years after Rana Plaza fashion labels conceal a broken system” (letteralmente: Zona di pericolo greenwash. A 10 anni dal Rana Plaza, le etichette di moda nascondono un sistema difettoso) diffuso nei giorni scorsi, in occasione del decimo anniversario del disastro di Rana Plaza in Bangladesh, in cui persero la vita più di mille persone.

Greenpeace: le iniziative di Coop “Naturaline” e Vaude “Green shape” hanno ottenuto buoni risultati

"Dieci anni dopo la tragedia di Rana Plaza, l'industria della moda continua a sfruttare i lavoratori e a generare enormi impatti ambientali", ha sottolineato, in una nota, Giuseppe Ungherese, responsabile della campagna inquinamento di Greenpeace Italia. "Oggi proliferano sul mercato vestiti che le stesse aziende del fast fashion etichettano come eco, green, sostenibili, giusti, ma il più delle volte è solo greenwashing. Si pubblicizza una sostenibilità inesistente mentre in realtà sono in costante aumento gli abiti fatti di plastica usa e getta derivante dal petrolio, non riciclabili e per lo più prodotti in condizioni di lavoro inaccettabili”.

Greenpeace: "Benetton e Calzedonia non ottengono buoni risultati"

Il rapporto di Greenpeace Germania svela quel che si nasconde dietro la presunta sostenibilità di alcune etichette di noti marchi internazionali, controllando la veridicità delle informazioni riportate nelle etichette stesse. Nell’indagine sono state controllate le iniziative di ventinove aziende, tra cui H&M, Zara, Benetton, Mango, che aderiscono alla campagna Detox lanciata nel 2011 da Greenpeace per azzerare le emissioni di sostanze chimiche pericolose nelle filiere tessili, e quelle di marchi internazionali come Decathlon e Calzedonia/Intimissimi.

Solo le iniziative di Coop “Naturaline” e Vaude “Green shape” hanno ottenuto buoni risultati, al contrario di quelle di tutte le altre aziende esaminate, si legge in una nota di Greenpeace. Il report mette in luce che Benetton e Calzedonia/Intimissimi, i marchi italiani presi in esame nell’indagine, "non ottengono buoni risultati. Il primo deve fornire molte più informazioni per riuscire realmente a produrre meno e meglio, oltre a dover rivedere la propria definizione di cotone sostenibile. Calzedonia, invece, deve passare dalle parole ai fatti rendendo veritiere le dichiarazioni sulla tracciabilità delle filiere e adottare un sistema che permetta di gestire le sostanze chimiche pericolose", hanno specificato gli esperti di Greenpeace. Benetton e Calzedonia, contattati da FashionUnited, non hanno commentato il report di Greenpeace.

Il Gruppo Calzedonia, che nel 2022 ha raggiunto i 3,047 miliardi di euro con un aumento del +21,6 per cento a cambi correnti, rispetto ai 2,505 miliardi al 31 dicembre 2021, è membro del “Fashion Pact” (coalizione che raggruppa oltre 60 realtà del settore moda e tessile affinché insieme si adoperino per un futuro più sostenibile), e nel 2020 e nel 2021 ha pubblicato il report sostenibilità disponibile sul suo sito. Benetton, che pubblica il proprio Bilancio integrato di sostenibilità dal 2016, aderisce a Better Cotton (iniziativa che educa i coltivatori all’utilizzo più consapevole delle sostanze chimiche, dei fertilizzanti e dell’acqua), ed è membro della Sustainable apparel coalition, coalizione di brand, retailer e manifatture che operano nel campo del tessile e della calzatura.

“Il fast fashion non può essere definito sostenibile. Le aziende hanno il dovere di allontanarsi da modelli di business basati su un’economia lineare e promuovere una vera economia circolare che riduca gli impatti sociali e ambientali. Allungare il ciclo di vita dei vestiti deve essere la priorità del settore, solo così eviteremo una moda basata sul greenwashing”, conclude Ungherese.

Accanto al greenwashing, come messo in luce da FashionUnited in questo articolo, però, va ricordato anche il meno famoso, ma altrettanto diffuso, greenhushing, ossia il cosiddetto silenzio verde (dall'inglese hushing silenzio), su progetti o risultati green, per paura di sbagliare.

Tornando al report, Greenpeace ha identificato alcuni tratti comuni in molte delle iniziative esaminate, come il rischio di confondere i consumatori con etichette presentate come certificate ma che in realtà derivano da programmi di sostenibilità aziendali; la mancanza della verifica di terze parti o della valutazione del rispetto dei migliori standard ambientali e sociali; l’assenza di meccanismi di tracciabilità delle filiere; l’assenza di riferimenti alla necessità di allontanarsi dall’attuale modello di business. E ancora, si legge in una nota dell'associazione ambientalista: la falsa narrazione sulla circolarità che si basa, per esempio, sull'approvvigionamento di poliestere riciclato proveniente da altri settori industriali invece che da abiti usati; il ricorso massiccio a termini fuorvianti come sostenibile o responsabile associato ai materiali che, di fatto, registrano performance ambientali solo leggermente migliori rispetto alle fibre vergini o convenzionali; il continuo ricorso a mix di fibre come il “polycotton o policotone” spesso presentato come più ecologico; la scelta di affidarsi all’indice Higg per valutare la sostenibilità dei materiali, uno strumento la cui parzialità è nota; il miglioramento di un singolo aspetto/parametro della produzione (per esempio riduzione del consumo di acqua o il riutilizzo/riciclo dei rifiuti pre-consumo).

La classifica Greenpeace

Dall’analisi effettuata da Greenpeace è stata poi stilata la classifica dei marchi: Verde: Coop Naturaline, Vaude Green shape Giallo: Tchibo Gut Gemacht (Well made) Rosso: Benetton Green Bee, C&A Wear the Change, Calzedonia Group, Decathlon Ecodesign, G-Star Responsible materials, H&M Conscious, Mango Committed, Peek & Cloppenburg we care Together, Primark Cares, Tesco F&f Made Mindfully, Zara Join life.

Green B è il progetto che raccoglie tutte le iniziative di sostenibilità dei marchi di Benetton. "Dalla concezione e realizzazione del prodotto alla catena di fornitura, dall’efficientamento energetico all’attenzione per le comunità, una visione a 360 gradi che mette a sistema l’impegno per l’ambiente e le persone che costituisce un valore costante dell’azienda. Per Benetton Group la responsabilità sociale è un elemento connaturato al proprio modo di essere. Viene portato avanti da sempre, grazie a un modello di “fare impresa” basato, a tutti i livelli, su principi di rispetto per l’ambiente e le persone e su campagne di comunicazione per la difesa dei diritti umani", sottolineava il management dell'azienda veneta nel 2021, anno di lancio del progetto.

Ciò detto, l'associazione ambientalista ribadisce che, seppur con alcune eccezioni, l'indagine rivela come l'industria della moda, con un sistema di etichette autoprodotte presenti su molti vestiti, sta comunicando ciò che in realtà non è. Si tratta di iniziative che possono essere annoverate come eclatanti casi di greenwashing, con il serio rischio di confondere le persone e spingerle a credere di acquistare prodotti realmente sostenibili.

La moda usa e getta a basso costo continua a proliferare

Nonostante, sottolinea, ancora, Greenpeace, emergano sempre più dati sui devastanti impatti ambientali del settore e dell’insostenibile modello della fast fashion, la moda usa e getta a basso costo continua a proliferare: dal 2000 al 2014 la produzione di capi di abbigliamento è raddoppiata e, con essa, sono cambiate radicalmente anche le abitudini di acquisto. Le persone comprano più vestiti (circa il 60 per cento in più rispetto al 2000) e li usano per un periodo più breve.

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