I marchi "ostentano" la qualità dei capi ma faticano a dire quanto pesa sul prezzo finale
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Si chiama trasparenza radicale e consiste (anche) nello spiegare quanto effettivamente costa al marchio, il capo che il cliente si accinge ad acquistare e quanto viene ricaricato il prezzo finale.
Sarebbe una manna di questi tempi, con clienti sfiduciati nei confronti delle griffe, anche a causa di diversi casi di caporalato che hanno coinvolto le aziende del lusso, ma anche con una debolezza dei consumi significativa e un desiderio, da parte di molti, di capire qual è la storia dietro un capo, una maglietta, un pullover, una borsa. E invece, niente. Quasi nessuno dei marchi della moda si è spinto a raccontare "cosa c'è" nel prezzo di cartellino. Insomma, story telling tanto, tantissimo, fiumi di parole sull'esperienza di acquisto (sempre esclusiva), e di vendita, ma nemmeno l'ombra di un piccolo conteggio con chiare voci e relativo costo: materiale, lavorazione, metalleria, bottoni, cerniera (il cosiddetto hardware) filo, trasporto, costo della confezione, tasse.
La creazione di un rapporto di fiducia con il consumatore e con il mercato si basa su una maggiore trasparenza anche sul prezzo
Quasi cinque anni fa FashionUnited raccontò il caso di Everlane, azienda americana di abbigliamento uomo e donna e accessori, con sede a San Francisco, che esplicita in maniera trasparente come arriva al prezzo retail sul cartellino di ciascun singolo capo. A oggi pare che questo caso virtuoso non abbia fatto molti proseliti: sorge il dubbio che le griffe temano che i clienti potrebbero spaventarsi e disamorarsi di qualche marchio davanti a margini spropositati e prezzi di cartellino non così giustificati.
In Italia tra i casi virtuosi figura il marchio Garment Workshop, co-fondato dal designer Federico Barengo, che racconta in maniera trasparente costi delle singole voci che vanno a comporre il costo dei capi ed evidenziano qual è il margine di ricarico dell'etichetta. "Non mi risulta che ci siano altre aziende in Italia che lo fanno", ha spiegato, a FashionUnited, Barengo, che la settimana scorsa era presente a Denim Première Vision per presentare una capsule collection nata dalla collaborazione con la divisione di stampa digitale del Gruppo Acm, NextPrinting.
Sicuramente molto è stato fatto sul fronte della trasparenza lato catena di approvvigionamento in generale, sulle sue pratiche produttive, condividendo informazioni dettagliate sulle fabbriche, sui materiali e sulle iniziative ambientali. Molto ancora arriverà nel momento in cui diventerà obbligatorio il Passaporto digitale dei prodotti, anche se diverse aziende si stanno già cimentando con il lancio di collezioni che lo prevedono.
La trasparenza sui costi può incoraggiare pratiche di produzione più etiche e sostenibili
La creazione di un rapporto di fiducia con il consumatore e con il mercato si basa sicuramente su una maggiore trasparenza.
La trasparenza sui costi può incoraggiare pratiche di produzione più etiche e sostenibili, mettendo in evidenza i costi associati a materiali e manodopera responsabili.
Anche le cosiddette eccellenze del made in Italy, quelle che fanno dell'artigianalità e della capacità delle maestranza nostrane il proprio fiore all'occhiello, sono restie a una comunicazione di questo genere, limitandosi a uno story telling generico che, invece, potrebbe trovare nuove e interessanti declinazioni proprio nello spiegare il peso, anche monetario, della tanto citata esclusività e qualità del prodotto.