Salvare il made in Italy partendo dalla credibilità del marchio e da un adeguato storytelling
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Made in Italy nell'occhio del ciclone in questi ultimi giorni e non solo per i dazi che, nonostante l'accordo tra Usa e Ue, penalizzano molti settori, ma anche e soprattutto per la questione del caporalato e per la difficoltà delle aziende di controllare tutta la filiera, fornitori e subfornitori.
In realtà, questi episodi di caporalato, l'ultimo dei quali coinvolge Loro Piana, fanno emergere un tema che FashionUnited sta affrontando da diverso tempo e che ha a che fare con la trasparenza e la comunicazione, ossia con la capacità delle imprese di sapere raccontare con sincerità, semplicità e cura, cosa è davvero il made in Italy e come lo si fa.
Dire che un prodotto è made in Italy senza spiegare cosa significa concretamente non basta più a "incantare" il cliente
Insomma, dire che un prodotto è made in Italy senza spiegare cosa significa concretamente non basta più a "incantare" il cliente, soprattutto alla luce degli episodi di sfruttamento e mancanza di sicurezza sul lavoro che hanno coinvolto marchi blasonati. Inoltre, sapere che una borsetta griffata o un capo di lusso ha un prezzo al pubblico di migliaia di euro ma viene pagato al fornitore poche decine di euro dalla griffe, come emerso da alcune indagini, acuisce il problema e allontana i consumatori dalle griffe.
Non meno di una settimana fa Giusy Bettoni, fondatrice e ceo di Class, acronimo di Creativity lifestyle and sustainable synergy, eco-hub internazionale con sede a Milano, parlando con FashionUnited avvertiva che tacciarsi di essere made in Italy senza declinare in maniera puntuale, chiara, semplice, concreta e sintetica questo concetto, è poco utile, non aiuta nè moda, nè filiera.
Una esortazione a parlare, a raccontare e a dimostrare cosa è il made in Italy, qualche mese fa, arrivava anche da Renzo Rosso, patron di Otb, holding che ha in pancia marchi come Diesel, Jil Sander, Maison Margiela, Marni e Viktor&Rolf. "Abbiamo qualità uniche, buon gusto, dobbiamo farci valere per quello che siamo e per quello che abbiamo da offrire”, spiegava il fondatore di Otb.
“L’Italia produce circa l’80% dei beni di lusso al mondo ed è considerata il Paese numero uno per la filiera produttiva. Ecco perché i nostri artigiani sono ricercati in tutto il mondo, non dobbiamo farceli scappare", sottolineava Rosso in occasione della Giornata del made in Italy ai microfoni di RaiNews24 durante la trasmissione Pomeriggio 24.
Tra i sostenitori del made in Italy con un approccio concreto, naturalmente, anche il ministro del Mimit, Adolfo Urso, che la settimana scorsa ha fatto sapere che si starebbe valutando l'introduzione di un sistema di certificazione dopo che il marchio Loro Piana è stato posto sotto amministrazione giudiziaria per presunta violazione dei diritti dei lavoratori.
Adolfo Urso, ministro delle Imprese e del made in Italy, come riportato dalla Reuters, ha dichiarato, alle associazioni di categoria durante il Tavolo della moda, che alcune aziende illegali nella filiera della moda hanno macchiato l'immagine del "made in Italy".
Come si legge in una nota del Mimit, "per contrastare i comportamenti illeciti di pochi in materia di lavoro, che possono compromettere la reputazione dell’intero comparto, Urso ha evidenziato che il governo “sta lavorando a una norma per certificare la sostenibilità e la legalità delle imprese del settore, con l’obiettivo di offrire una soluzione strutturale al problema". La norma si pone l'obiettivo di certificare la filiera che fa capo al titolare del brand, sulla base di verifiche preventive ad hoc, in modo da escludere che quest'ultimo debba rispondere per comportamenti illeciti od opachi riconducibili ai fornitori o ai subfornitori lungo la catena.
Ma cosa è il made in Italy? E la certificazione potrebbe essere davvero la soluzione? Abbiamo visto che quelle per la parità di genere, dati alla mano, non hanno cambiato davvero l'approccio delle aziende e parificato concretamente il trattamento di uomini e donne sul lavoro, così come abbiamo visto che l'introduzione di norme sempre più stringenti, anche se utile, da sola non basta.
Anche in questo caso, quindi, la questione è più complessa ed è culturale e gli aspetti da considerare sono molti. In alcuni casi è necessario scavalcare il made in Italy e puntare dritto alla credibilità del marchio, delle persone, delle azienda. Patrizio Bertelli, patron di Prada, è stato uno dei primi, decenni fa, a parlare di made in Prada, e lo fece per sdoganare la delocalizzazione in Cina perché se un prodotto portava il logo del marchio, voleva dire che era fatto bene, con prodotti di qualità e in maniera sostenibile, anche socialmente.
Della stessa opinione Adriano Goldschmied,"the godfather of denim", secondo cui, da sempre, bisogna essere "made ovunque" ma vincitori. Nel lontano 2017, raccontava a FashionUnited che il made in Italy è un peccato di presunzione il consumatore si fida del brand non del "made in". "Faccio un esempio: questo telefono che ho in mano è un Apple, al consumatore non interessa che sia prodotto a Taiwan o in Usa, ma gli interessa che funzioni bene, cosa che è garantita dal marchio. Questa filosofia del made in Italy, in molto casi, ha portato il mercato italiano fuori dalla realtà. E' anche vero che in Italia ci sono ottime realtà, aziende che sanno fare il loro mestiere, esempi di grandi capacità e qualità", spiegava Goldschmied.
"Il consumatore è informato, sa riconoscere la qualità ed è quello che conta, non il "made in". Bisogna essere "made ovunque ma winner", concludeva Goldschmied.
Una riflessione che oggi più che mai andrebbe metabolizzata. Perchè per uscire vincitori da questa situazione complessa è necessario recuperare credibilità con uno storytelling che comunichi uno storymaking ineccepibile, reale, concreto.